La post pubertà tende a non finire mai (racconto)

alle 3 del mattino del 26 maggio 2008 ho scritto questa cosa, non mi ricordavo…in quel periodo lavoravo come aiuto cuoco in un ristorante…

La post
pubertà tende a non finire mai

 

Quando
ci si inizia ad accorgere della naturale vocazione alla sottomissione
dell’essere umano ad uno più forte, si tende a credere che sia
solamente un periodo circoscritto nel tempo, un periodo che prima o
poi finirà; si, perché l’essere umano reagisce prima o poi, non può
permettere che anche i suoi figli vivano da schiavo come lui debole e
sottomesso.

Sottomesso
poi a chi? Chi sono questi nostri simili più forti che riescono in
così pochi, sicuramente in netta minoranza, a tenere in pugno il
mondo?

Non
vorrei parlare dei classici personaggi come capi di stato, grossi
industriali e guerrafondai vari, ma degli scaltri paesani: i figli
dei nostri simili che per qualche astratto motivo riescono dapprima
ad emergere e successivamente a dominarci.

Ottant’anni
fa P. e G.,due sfruttati di un piccolo paesino del sud Italia partono
per le Americhe in cerca di fortuna: P. lavora come un pazzo e non si
lamenta mai, non fuma, non beve e non pensa neanche a divertirsi un
po’ il sabato sera; G. dopo una settimana di intenso lavoro ha
bisogno, almeno il sabato, di andare in giro la notte magari a
ballare cercando magari di conquistare una bella fanciulla.

Dopo
venticinque lunghi anni nelle Americhe e più precisamente in
Venezuela, i due che ormai non si frequentano più da anni, fanno
ritorno al paesino. Hanno ormai una certa età, hanno superato i
quarantanni e devono sposarsi; ambedue molto ambiti dalle donne dl
paese, anche G. perché comunque ha racimolato almeno i soldi per
costruirsi una casa.

Nascono
dei figli da queste nuove coppie che potranno andare a scuola e
prender la terza media. I figli saranno molto diversi dai padri e,
per uno strano scherzo del destino, il figlio di P. ha un carattere
simile a G. ed il figlio di G. ha un carattere molto simile a quello
di P.

Il
figlio di P., finita la terza media, anzi no, lui andò
all’avviamento per imparare un mestiere, così da poter poi subito
lavorare con facilità dopo la scuola. Il figlio di P. andrà a
lavorare come apprendista fabbro presso l’unica bottega del paese, il
proprietario lo prese dapprima a gratis e dopo circa mesi sei,
cominciò a pagarlo con una somma equivalente a trecentocinquanta
euro di oggi ogni mese; il figlio di P. lavorava almeno dieci ore al
giorno, poi se qualche importante consegna doveva essere effettuata,
non si creava problemi a lavorare anche di notte. Tanto lui non
voleva amici, non fumava e non beveva, non andava a ballare e non era
intenzionato a conoscere nessuna fanciulla del paese, meglio andare a
lavorare e mettere da parte qualcosina in più per il futuro.

Il
figlio di G. invece viveva i bar, si al mattino si alzava molto
presto ma era un tipo allegro che aveva bisogno della gente. Uno con
tanti sogni in testa come quello di girare il mondo, conoscere bella
ragazze straniere e magari ritornare da vecchio in paese dopo aver
vissuto realmente la vita. Infatti, all’età di anni diciassette
partì dapprima per le Americhe e più precisamente negli Stati
Uniti, per poi trasferirsi in Argentina e dopo solamente cinque anni
di lavoro saltuario, tornare in Europa: più precisamente in
Germania.

In
Germania lavorò in una fabbrica di ammortizzatori per automobili,
qui durò un po’ di più e resistette sette anni, poi, stanco di
lingue straniere e ignaro di quello che gli aspettava al sud Italia,
tornò in paese ingenuamente pensando che il boom economico degli
anni settanta gli avrebbe permesso di lavorare poco, magari aprendosi
un chiosco di giornali e coltivandosi un pezzetto di terra per essere
autonomo col cibo quando avrebbe preso moglie: si, perché
finalmente, anche il figlio di G. si era deciso a sposarsi una bella
o meno bella(ma questo non importa) paesana.

Nel
frattempo il figlio di P. aveva lasciato il lavoro dal fabbro perché
aveva intuito l’ondata consumistica che sarebbe arrivata nel prossimo
futuro e che la gente avrebbe speso fior di milioni di lire in
ristoranti per festeggiare inutili cerimonie e rituali religiosi.

Il
figlio di P. andò dapprima a fare una sorta di apprendistato in
paesino semi turistico in riva la mare, andò per un stagione estiva
e non ci volle mai più ritornare. Troppo divertimento, la gente
andava a rilassarsi e stava in spiaggia tutto il giorno a dormire per
poi drinkare nei bar tutta la notte fino all’alba; lui non lo capiva,
non capiva questi turisti ricchi con tutta questa voglia di
divertimento, con le mogli che andavano in giro seminude e parlavano
con tutti senza vergogna.

Tornò
dopo quattro mesi di stagione estiva in paese, trovò lavoro nel
capoluogo di provincia, nel primo ristorante “nazionalpopolare”
della zona, il primo ristorante così grande dove festeggiare
matrimoni, cresime, battesimi e prime comunioni.

Il
figlio di P., lavorando notò che la gente era disposta a spendere
parecchi soldi per festeggiare uno sposalizio, ordinando cinque, sei
portate per cento invitati, portate che non avrebbero consumato del
tutto e quindi cibo che sarebbe stato buttato.

Lui
studiava e maturava sempre più di aprire in paese un giorno un
ristorante del genere. Passavano gli anni e intanto le attenzione e
la fiducia del capo nei suoi confronti erano quasi quelle di un padre
con un figlio; già perché lui suo padre lo considerava un poco di
buono, uno che beve il caffè corretto all’anice già al mattino e
che passa il tempo a giocare a carte tutto il giorno, in un certo
senso provava vergogna di quell’uomo.

Dopo
dieci anni di duro servizio, dopo dieci anni dove mai il figlio di P.
ebbe da da lamentarsi, convinse il proprietario del ristorante di
provincia ad aprirne uno nell’entroterra della provincia e più
precisamente in un suo pezzo di terra ereditato dal nonno nella
strada provinciale che collega due paesini di campagna.

La
condizione era che il figlio di P. avrebbe gestito il tutto e che
avrebbe pagato mensilmente una retta al proprietario. Il figlio di P.
ci sapeva proprio fare: pagava poco i dipendenti, riutilizzava cibo e
vino che i commensali lasciavano spesso intatti ma anche no,
controllava che i dipendenti non consumassero niente se non acqua, un
pasto di avanzi rimescolati e un caffè. Stava attento agli sprechi
dei detersivi, dell’elettricità e durante il tempo libero guardava
la televisione a casa, non andava in ferie e soprattutto era
tirchissimo.

L’episodio
peggiore fu quello quando morì il padre da lui tanto disprezzato,
gli comprò la bara più brutta che il becchino nel paese avesse mai
costruito, era in offerta per i tipi come lui: quelli che non
guardano in faccia neanche la morte sfidandola. La bara aveva un
piccolo difetto estetico, abbastanza notevole ma lui ne avrebbe
comprata pure una già usata per quel padre che non si meritava
niente.

Si, il
figlio di P. era comunque molto religioso, ovviamente credeva che il
buon dio gli avesse dato la fortuna di essere più furbo degli altri
e che anzi lui gli altri li aiutava perché creava posti di lavoro,
evitando che questa gente stesse magari per strada a mendicare o a
passare il tempo libero a non far niente. Lui teneva i suoi
dipendenti almeno dieci ore al giorno per turno, i personale fisso
nei giorni festivi faceva due turni al giorno per un totale
quattordici ore.

Il
personale, che brutta specie il personale. Persone felicemente
rassegnate di avere un lavoro di merda e di lavorare il più
possibile per evitare spendere tutti i soldi divertendosi o magari
evitare di stare con la moglie e con i figli. Persone che guadagnano
così poco per stare dieci ore a lavare grossi pentoloni, a
schizzarsi di acqua e a rovinarsi le mani; non hanno mai pensato un
giorno mi riposerò, giocherò con i miei nipotini ma solamente che
dio gli ha dato la felicità di poter lavorare.

Si
perché dio è misericordioso e, almeno un lavoro di merda te lo
concede; non lo fa mica con tutti, c’è gente che mendica e poi avete
mai visto quelli del terzo mondo che non possono manco mangiare? Noi
del sud Italia almeno siamo gente dignitosa, lavoriamo come i ciucci
ma abbiamo un lavoro che ci consente di sopravvivere e soprattutto ci
siamo conquistati la fiducia di un datore di lavoro che ci ha
accolto, perché dovremmo lamentarci se non per farci licenziare,
perché pretendere di più. Dio e il padrone sono stati così tanto
misericordiosi con noi da accoglierci, non sarebbe giusto non
apprezzare gli spiccioli che la vita terrena e disposta a darti,
tanto su in cielo saremo tutti uguali: noi sfruttati e il nostro
padrone che tanto bene a fatto accogliendoci nel suo ristorante.
Anzi, forse pure in paradiso lui avrà un posto migliore del nostro,
proprio per le sue velleità filantropiche della vita terrena che ha
vissuto intensamente con sacrificio, spirito di abnegazione e la
totale assenza del vizio se non a quella del denaro che si spera
sperpereranno un giorno i figli magari tutto a cocaina.

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